I giovani sono i nuovi poveri.

Di Emanuela Melchiorre – Economista e Giornalista

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Mai come in questi ultimi tempi da Padoa-Schioppa alla Fornero si è assistito ad un attacco verbale tanto diretto e intempestivo alla popolazione più giovane italiana, accusata di non voler trovare lavoro e di vivere a spese di mammà fino a oltre i 40 anni. Una simile accusa non può che essere rimandata al mittente poiché è un chiaro segnale di inadeguatezza della classe dirigente, sia essa politica o tecnica, di porre rimedio ad un progressivo impoverimento della popolazione italiana, di cui ne stanno facendo maggiormente le spese proprio i più giovani, privati di prospettive e di entusiasmo per il futuro.

Le remunerazioni un tempo elevate risultano essere oggi relativamente modeste, non necessariamente in senso assoluto, ma più significativamente in senso relativo. Si usa dire “i tempi sono cambiati!”, ma mai come in questi anni sono cambiati tanto a spese di una singola generazione, che soffre oltretutto del confronto diretto con l’esperienza lavorativa ed esistenziale dei propri genitori.

La classe medio-impiegatizia era povera anche nel secondo dopoguerra italiano, quando alla concentrazione dei redditi seguì rapidamente una più ampia distribuzione della ricchezza tra le varie classi sociali. Vi è stata la crescita accelerata degli anni ‘50, quando il PIL italiano cresceva a due cifre, quando gli addetti all’industria superavano il numero degli addetti all’agricoltura, al tempo in cui si formavano le aristocrazie operaie che avanti a loro avevano la possibilità di migliorare significativamente la propria condizione sociale. Non è molto lontano nella memoria il tempo in cui i risparmi di un dirigente della Pubblica amministrazione consentivano l’acquisto di una casa per sé e la sua famiglia; quando si cominciò a disporre di beni di consumo durevoli, rappresentativi di un crescente status sociale e del miglioramento delle condizioni di vita quotidiana. Si ricorderà quello che ha significato per molte famiglie l’acquisto della Fiat 500, o la Vespa per i giovani, gli elettrodomestici e via dicendo. In quegli anni (1973) è stata generalizzata la progressività dell’imposta sul reddito ed era vivo il desiderio solidale di far crescere economicamente e socialmente tutta la popolazione e non solo una parte della popolazione a spese di quella più giovane.

Nei decenni successivi la crescita è stata modesta, ma senza appiattimenti retributivi, anche grazie all’esplosione del debito pubblico che ha finanziato le voci di spesa del welfare state (previdenza, l’assistenza, la sanità), ma anche l’espansione del numero dei dipendenti pubblici. Decenni di benessere, nel frattempo, avevano consentito la formazione di patrimoni, inesistenti all’inizio degli anni del boom.

Già questo risparmio familiare pregresso faceva dipendere maggiormente le condizioni economiche delle nuove generazioni da quelle della famiglia di appartenenza. Il fenomeno si è aggravato anche con la trasformazione del mercato del lavoro, con l’introduzione del «lavoro flessibile» e della progressiva perdita di garanzie dei lavoratori, specialmente dei più giovani. L’alternanza di periodi di lavoro remunerato e di disoccupazione, conseguente a tali modificazioni dei rapporti contrattuali, ha stretto maggiormente il rapporto di dipendenza delle generazioni più giovani dai risparmi accantonati o investiti dalle generazioni precedenti. Quindi di fronte alla «redistribuzione formale» che attiene al ruolo dello Stato, ha acquisito un’importanza crescente la «redistribuzione informale» tutta interna alle famiglie. Si sono poste in tal modo le premesse di una moderna “feudalizzazione della società”, in cui la condizione sociale è sempre più dipendente da quella familiare.

Al quadro economico italiano si aggiungono le influenze internazionali. La concorrenza di Paesi molto più competitivi ha completato l’opera, portando le remunerazioni ad un livellamento internazionale a quote più basse, asiatiche, ma anche est-europee.

Non è facile giustificare agli occhi dell’opinione pubblica una serie di sperequazioni politicamente non volute, mentre è ben più facile metterle in conto alle generazioni più giovani “sfaccendate” e “viziate”. L’impoverimento individuale e l’appiattimento dei redditi non si contrasta a parole sconnesse e schizofreniche. La redistribuzione fiscale se non attuata mediante politiche economiche lungimiranti rischia di trasformarsi in una guerra tra poveri, vecchi e nuovi.

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